Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia.
Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle.
Quand’ero giovane le avrei volute conquistare.
Ora posso lasciarmi conquistare da loro.
Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza
dalla quale l’uomo si sente ispirato, sollevato.
Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi,
ma lì ci è difficile riconoscerla.
Per questo siamo attratti dalle montagne.
Per questo, attraverso i secoli,
tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell’Himalaya,
sperando di trovare in queste altezze le risposte
che sfuggivano loro restando nelle pianure.
Continuano a venire.
L’inverno scorso davanti al mio rifugio
passò un vecchio sanyasin vestito d’arancione.
Era accompagnato da un discepolo, anche lui un rinunciatario.
«Dove andate, Maharaj?» gli chiesi.
«A cercare dio», rispose,
come fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
Io ci vengo, come questa volta,
a cercare di mettere un po’ d’ordine nella mia testa.
Le impressioni degli ultimi mesi sono state fortissime e prima di ripartire,
di « scendere in pianura» di nuovo, ho bisogno di silenzio.
Solo così può capitare di sentire la voce che sa,
la voce che parla dentro di noi.
Forse è solo la voce del buon senso, ma è una voce vera.
Le montagne sono sempre generose.
Mi regalano albe e tramonti irripetibili;
il silenzio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo.
L’esistenza qui è semplicissima.
Scrivo seduto sul pavimento di legno,
un pannello solare alimenta il mio piccolo computer;
uso l’acqua di una sorgente a cui si abbeverano gli animali del bosco
– a volte anche un leopardo –
faccio cuocere riso e verdure su una bombola a gas,
attento a non buttar via il fiammifero usato.
Qui tutto è all’osso, non ci sono sprechi
presto si impara a ridare valore ad ogni piccola cosa.
La semplicità è un enorme aiuto nel fare ordine.